Scrittori che non scrivono

Scrittori che non scrivono

Da alcuni anni a questa parte il mondo culturale italiano si è arricchito di una nuova pratica: quella dei festival letterari e/o filosofici. Tali festival sono degli eventi in cui autori di romanzi, saggi, graphic novel, libri comici e chi più ne ha più ne metta, vengono invitati a parlare delle loro opere, del loro modo di vedere il mondo e, spesso, della loro vita. Sono eventi molto partecipati, con folle semi-oceaniche che si spintonano per accaparrarsi un posto in prima fila (là dove il festival è gratuito) o si accalcano ai botteghini per acquistare un biglietto (là dove il festival è a pagamento). Il format, quanto meno per il pubblico italiano, è relativamente moderno. Soprattutto se paragonato ad altri paesi che propongono eventi del genere da diversi decenni. Tuttavia è un format che piace e coinvolge un numero sempre crescente di pubblico, diventando un vero e proprio motore economico per la città che decide di ospitarlo.

Un po’ come accadde con le università o con i festival musicali, una volta capito che il fenomeno è potenzialmente redditizio, molte amministrazioni comunali hanno deciso di investire in eventi del genere. Va detto che non tutti i festival letterari hanno avuto e hanno il medesimo successo: la macchina organizzativa è, senza ombra di dubbio, una componente fondante per il successo del festival in questione. Per intenderci, non basta chiamare Baricco per farlo parlare del suo ultimo capolavoro per avere un pubblico adeguato. Ci vuole impegno, pubblicità, programmazione, analisi del sostrato cittadino e delle potenzialità dell’evento. Insomma, un insieme di cose decisamente tecniche che poco o nulla hanno a che vedere con l’argomento che verrà trattato. Ovvero la scrittura e, di riflesso, gli scrittori. Anzi, per essere più precisi è l’esatto contrario.

Questa precisa e meticolosa macchina organizzativa cozza tuttavia con i dati annuali sulla lettura in Italia che fornisce l’Istat. Dati che segnalano come, nel 2013, sei italiani su dieci non abbiano letto nemmeno un libro. Nello specifico, una donna su due e due uomini su tre. Dei famosi quattro italiani su dieci che leggono almeno un libro all’anno (24 milioni circa), poi, solo il 14% ha letto almeno un libro al mese, mentre una famiglia su dieci non possiede nemmeno un libro in casa. Se siete in un luogo pubblico, guardatevi attorno e prendete paura. Le vendite fisiche non vanno certamente meglio. A discapito dei grandi colossi dell’editoria multinazionale, gli editori italiani (soprattutto quelli di notevoli dimensioni) non navigano certo in buone acque. La scelta di ridurre la “filiera” e di farsi oltre che editori librai non ha giovato quanto si aspettassero i grandi gruppi editoriali e, come da diversi anni a questa parte, anche nel 2014 le vendite di libri avranno il segno meno davanti alla cifra principale.

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Tutti questi dati drammatici, però, non sembrano scalfire la vita e il successo dei maggiori festival letterari i quali, a differenza delle vendite, hanno sempre un numero crescente di partecipanti. Uno dei festival letterari più importanti della penisola è certamente “Pordenonelegge”, evento di cui “L’Oltreuomo” si è spesso occupato con articoli che ne hanno scandagliato i “tipi umani”, i protagonisti o le tematiche. Come ogni grande manifestazione che si rispetti, anche “Pordenonelegge” è fortemente divisiva. E non potrebbe essere altrimenti in una città che vede librerie aprire e chiudere in pochi mesi, oppure eventi culturali “accessori” venir frequentati da un pubblico più vicino al reparto geriatrico di un ospedale, piuttosto che a quello auspicato e auspicabile di persone fortemente interessate. Insomma, com’è prevedibile, anche una manifestazione di successo come “Pordenonelegge” ha i suoi critici e detrattori, i quali fanno il paio con gli amanti sperticati della stessa. Lettori non propriamente forti che vorrebbero una “Pordenonelegge” al mese. Quanto meno per dare il cambio al libro di Fabio Volo che tengono nel comodino.

In ogni caso, non è di “Pordenonelegge” che vorrei parlare, piuttosto di scrittura e di scrittori. Perché, in fin dei conti, sarò anche banale, stupido e retrogrado, però vi è una domanda che, dal boom dei festival letterari in poi, mi sono sempre posto. Ed è la seguente: se uno scrittore decide di utilizzare la scrittura come forma d’arte e/o espressione, perché cedere alla lusinga di spiegare verbalmente quella sua opera? Non era forse sufficiente la scrittura, mezzo scelto e dedicato a quella precisa motivazione? Insomma, cosa dovrei sapere di più sull’opera dell’autore (parlo, principalmente, di autore narrativo) che già non dovrebbe avermi “spiegato” l’opera stessa? Forse la domanda è un po’ arzigogolata, e potrebbe facilmente essere “smontata” dall’evidenza che nella società contemporanea un autore deve essere per forza mutevole e poliedrico, aperto al contatto con il pubblico e alla continua interazione per mezzo di festival, eventi promozionali, social-media e via discorrendo. Da cui la riflessione di partenza, cioè che il contenuto del libro, in fin dei conti, non conta nemmeno più di tanto (sarebbe interessante che l’Istat calcolasse la percentuale di persone che, pur presenziando al fatidico “incontro con l’autore”, hanno realmente letto qualcosa del medesimo…). Ciò che conta è il “prodotto” libro, ovvero qualcosa di assolutamente diverso.

Di fronte a tutto quest’eccesso verbale e a questa profusione narrativa, quindi, mi sono messo alla ricerca di scrittori che, per diversi motivi, hanno praticato la “non scrittura”. Scrittori, cioè, che hanno fatto del loro “non-presenzialismo” (cartaceo, umano ed editoriale) non tanto una bandiera, quanto più una caratteristica irrinunciabile. Lo hanno fatto secondo modalità differenti, abbandonando la scrittura, riprendendola dopo decenni, negandola in maniera maniacale, cercando di distruggerla oppure distruggendosi a loro volta. Si tratta di autori molto diversi tra loro, tuttavia accomunati da una precisa (e non trascurabile) caratteristica: volenti o nolenti, non li vedrete mai sul palco di un festival letterario.

– Socrate (470 a.c. – 399 a.c.): il filosofo greco Socrate è certamente l’agrafo per eccellenza. Nonostante sia stato uno dei massimi pensatori della storia dell’umanità, Socrate non ha scritto in vita una sola riga. Ciò, a rigor di logica, dovrebbe “squalificarlo” da questa nostra compilazione, tuttavia considerare che il suo pensiero filosofico (ma non solo, anche le sue massime o i suoi aforismi) è alla base della cultura moderna dovrebbe farci riflettere su quanto non sia il “prodotto” in sé a contraddistinguere il valore di un’opera, bensì il suo contenuto. Contenuto che, per quanto concerne l’aspetto filosofico di Socrate, ci è giunto per mezzo del discepolo Platone; mentre per quanto concerne l’aspetto storico-biografico ci è giunto per mezzo dello storico Senofonte, altro allievo del maestro ateniese. Avere come biografo uno dei massimi storici dell’antichità e come “medium” filosofico uno dei massimi filosofi (per altro dotato di uno stile incredibilmente moderno) della storia dell’umanità aiuta, ma se questi ultimi erano tuoi discepoli, di certo vuol dire che non si è trattato solamente di un colpo di fortuna. Socrate, “docente di scrittura creativa dal IV secolo avanti cristo”: la scuola Holden gli fa una sega.

Scrittori

– Publio Virgilio Marone (70 a.c. – 19 a.c.): a differenza dell’agrafo Socrate, Virgilio fu un poeta dalla vasta, vastissima, produzione letteraria. Opere come le “Georgiche” e le “Bucoliche”, oggi considerate quasi “minori”, avevano reso Virgilio uno dei poeti più in vista del panorama culturale dell’epoca, tanto da farlo entrare nell’ambitissimo circolo letterario di Mecenate. Da lì alla corte imperiale, poi, il passo fu breve. In quel periodo l’imperatore Augusto stava infatti cercando un grande poeta cui affidare la creazione di un’epica latina. Ovvero di un mito fondante in cui tutti i cittadini romani potessero riconoscersi così da sentirsi “alla pari” dei loro cugini Greci. Virgilio fu dunque il poeta cui venne affidata quest’ardua missione; missione che venne presa decisamente sul serio. Nacque così l’“Eneide”, poema epico al quale Virgilio dedicò gli ultimi dieci anni della sua esistenza, investendo quasi tutte le sue forze ed energie per raccontare le gesta di Enea, eroe troiano figlio di Anchise e fondatore di Roma. Com’è risaputo, l’“Eneide” è forse il più importante poema della letteratura latina, nonché il più letto: ciò dovrebbe bastare a non considerare Virgilio in questo nostro elenco. Non tutti sanno, però, che per espressa volontà dell’autore l’“Eneide” sarebbe dovuta essere bruciata in quanto incompiuta. Di ritorno da un viaggio in Grecia, vittima di un colpo di sole, Virgilio fece testamento, chiedendo esplicitamente ai suoi amici Plozio Tucca e Vario Rufo di distruggere il manoscritto quanto prima. I due, incapaci di distruggere tale capolavoro, disubbidirono all’ultima richiesta del vate. Consegnarono quindi il testo dell’“Eneide” ad Augusto che, senza andare troppo per il sottile, lo pubblicò così com’era. Quello che leggiamo ora è dunque un testo non riconosciuto dal suo autore (qualcosa di simile avvenne anche con la prima edizione de “La Gerusalemme liberata” del Tasso), frutto di un’arbitraria manovra editoriale/politica che nulla aveva a che vedere con la scrittura. Caro Virgilio, la prossima volta assumi un editor, ma cambia casa editrice: pubblicare in regime di monopolio non è sempre una dritta. Vedi Mondadori e poi muori.

– Arthur Rimbaud (1854 – 1891): pensare che la produzione poetica di uno dei massimi scrittori francesi (e non solo) si concluse quando quest’ultimo aveva appena vent’anni di età è qualcosa di tanto assurdo quanto incredibile. Eppure è proprio questa la storia di Arthur Rimbaud, poeta simbolista e decadente (anche se incastrarlo in definizioni letterarie è riduttivo) che, giunto alla tenera età di venti anni, decise di abbandonare del tutto la poesia e la scrittura. Promessa che mantenne con una forza e una coerenza instancabile. Finita la carriera di poeta e scampato alle pistolettate dell’ex amante Verlaine, Rimbaud si trasferì in Africa dove si dedicò al commercio e, saltuariamente, al traffico d’armi. La sua nuova “carriera” lo coinvolse così a fondo che non si dedicò ad altro se non al commercio, rifiutando le numerose richieste che giungevano dalla madre patria (dove la sua fama poetica cresceva di anno in anno) per ritornare a scrivere. A discapito delle pressioni, Rimbaud rimase fedele alle parole pronunciate all’amico e confidente Delahaye prima di ripartire per l’Africa nel 1879: «io non penso più a questo [ovvero alla scrittura]». Continuò quindi la sua vita avventurosa fino al 1891, quando un tumore alla gamba destra lo costrinse a tornare in patria. Nonostante le cure mediche, non si riprese più: morì a Marsiglia il 10 novembre di quello stesso anno. I tentativi di trovare tra le carte “africane” di Rimbaud nuove poesie si sono rivelati vani e inconcludenti. Il genio del poeta si “spense” al compimento del ventesimo anno d’età, poi più nulla: diciassette anni di silenzio letterario. Contando la media (reale) di un romanzo al mese, in quegli anni Georges Simenon avrebbe scritto più di 200 romanzi.

Scrittori spider man

– Robert Walser (1878 – 1956): Robert Walser fu uno dei più grandi scrittori di lingua tedesca nella storia della letteratura otto-novecentesca. Tanto per darne la dimensione, si dichiararono suoi ammiratori Robert Musil, Elias Canetti, Franz Kafka ed Herman Hesse. Non propriamente scribacchini, insomma. Robert Walser nacque a Bienne, nella Svizzera franco-tedesca, e visse una vita di continue peregrinazioni (umane e lavorative) tra la Germania e la Svizzera stessa. Spostandosi, preferibilmente, a piedi. Era, infatti, un grande amante delle passeggiate e dell’osservazione del paesaggio circostante: Non a caso le sue opere hanno spesso come protagonisti vagabondi o individui discretamente svagati che guardano al mondo che li circonda con un occhio piuttosto moderno, quanto meno per lo zeitgeist del tempo. Walser pubblicò romanzi, racconti, prose artistiche e articoli per riviste fino al 1921, quando iniziò il periodo dei “microgrammi”, cioè di testi scritti con una grafia minuscola (circa 1 millimetro), estremamente difficili da decifrare. Nel 1929 si fece ricoverare presso la clinica Waldau di Berna, motivando la scelta con l’evidenza di “sentire delle voci”. Il periodo di cura gli fece bene e, sempre continuando la pratica dei “microgrammi”, Walser riprese a scrivere. Nel 1933 venne però trasferito, contro la sua volontà, nel sanatorio di Herisau, gesto che lo spinse a smettere drasticamente con la scrittura. Nonostante venisse incitato da amici e medici a riprendere in mano la sua arte, Walser non scrisse più nulla, rifiutando di lasciare il sanatorio nonostante le sue condizioni di salute mentale fossero ritornate a essere ottimali. Walser passò il resto della sua vita a Herisau, dedicandosi alla sua grande passione: le passeggiate. Morì il pomeriggio di Natale del 1956, dopo una passeggiata nelle campagne innevate e dopo 23 anni di silenzio narrativo. Nel dubbio, mai ammettere di sentire le voci.

Scrittori foglio

[ecco un esempio dei “microgrammi” di Walser: e dire che la mia prof di italiano al liceo si lamentava della mia grafia…]

– Ludwig Wittgenstein (1889 – 1951): personalmente ho sempre considerato Wittgenstein come uno dei filosofi più “narrativi” della storia della filosofia. Intendiamoci, non che Wittgenstein si sia mai dedicato a scrivere racconti o romanzi, però la sua visione analitica della capacità comunicativa della parola e del linguaggio è sempre stato un aspetto che, a mio avviso, molti scrittori avrebbero dovuto considerare. Quanto meno prima di prendere metaforicamente in mano la penna e mettersi a scrivere. L’assunto più famoso di Wittgenstein resta senza dubbio quello secondo cui «di ciò di cui non si è in grado di parlare, si deve tacere». Assunto che conclude la sua opera maggiore (e unica), ovvero il “Tractatus logico-philosophicus”. Wittgenstein, infatti, scrisse una sola opera nel corso della sua vita, il sopracitato “Tractatus”: pubblicato nel 1921 grazie all’intercessione del filosofo Bertrand Russell (maestro di Wittgenstein), che ne curò l’introduzione. Condicio sine qua non per la pubblicazione, visto che vi erano ben pochi editori disposti a scommettere sul testo di un semi-sconosciuto trentaduenne austriaco (vatti a fidare degli esordienti…). Dopo il “Tractatus” Wittgenstein non pubblicò più nulla, fedele all’explicit della sua opera. Continuò, però, a dedicarsi alle sue ricerche logico-filosofiche e matematiche, facendo la spola tra Cambridge e numerose città europee. Uomo decisamente sui generis, Wittgenstein fu maestro elementare (severissimo), architetto, aspirante medico, giardiniere, mecenate e inventore. Morì nel 1951 per un tumore alla prostata, dopo tre decenni in cui non aveva pubblicato un solo rigo. A discapito di tre fratelli morti suicidi e di un’incomunicabilità logico-sentimentale pressoché assoluta, le sue ultime parole furono: «dite a tutti che ho avuto una vita meravigliosa!».

Scrittori bn

– Henry Roth (1906 – 1995): la vicenda dello scrittore americano Henry Roth è, se possibile, emblematica di quello che viene definito “il blocco dello scrittore”. Autore nemmeno trentenne di un romanzo divenuto un classico negli anni (“Chiamalo sonno”, 1934), ma passato pressoché inosservato dai critici dell’epoca, Henry Roth decise di abbandonare la scrittura negli anni ’40, preferendo dedicarsi alle più svariate occupazioni. Negli anni ’60, però, “Chiamalo sonno” fu riscoperto e, con esso, anche il suo autore. Roth non visse in maniera positiva questo successo giuntogli con alcuni decenni di ritardo, preferendo continuare a vivere una vita riservata nel tentativo di riacquistare l’ispirazione perduta. Scrisse alcuni racconti e storie brevi, ma nulla che potesse ricordare l’abilità narrativa riscontrata nel capolavoro giovanile. Superati i settant’anni, Roth riscoprì la vena creativa e iniziò a dedicarsi a un progetto ben più complesso e ambizioso: “Alla mercé di una brutale corrente”, opera in sei volumi di carattere fortemente autobiografico che venne pubblicata per la prima volta nel 1989, a più di mezzo secolo di distanza da “Chiamalo sonno”. In vita Roth assistette alla pubblicazione di solo due dei sei volumi di “Alla mercé di una brutale corrente”, i restanti uscirono postumi, e sembrarono chiarire parzialmente le motivazioni di un blocco narrativo durato per più di mezzo secolo. C’è chi si dedica a cinquanta sfumature di silenzio narrativo e chi si dedica a “Cinquanta sfumature di grigio”. Ai posteri l’ardua sentenza.

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[- Cinquant’anni di blocco dello scrittore non li augurerei nemmeno al mio peggior nemico, ma a Francesco Alberoni questo e altro! -]

– Guido Morselli (1912 – 1973): Morselli è uno tra i casi più eclatanti di “non presenzialismo” cartaceo causa terzi. Ovvero di scrittore mai pubblicato non per autonoma volontà (nel corso degli anni Morselli cercò di farsi pubblicare numerosi romanzi), bensì per precisa scelta editoriale. Scelta altrui, ovviamente. Nulla di strano, direte voi: le scrivanie delle case editrici di tutto il mondo pullulano di romanzi rifiutati e di scrittori “supposti” incompresi. Tuttavia la vicenda di Morselli è curiosa in quanto, una volta suicidatosi con un colpo di pistola, gli editori sembrarono finalmente interessarsi alla sua opera. Opera che, con il passare degli anni, venne pubblicata in maniera integrale, ottenendo anche un discreto successo. Al di là delle svariate tematiche trattate nei suoi romanzi (ci vorrebbe un articolo solamente per parlare di queste ultime), è interessante capire perché, in vita, Morselli non riuscì a pubblicare nulla, fatta eccezione per un dialogo filosofico e un saggio su Proust, entrambi pubblicati a sue spese. La motivazione più plausibile è che la scrittura e le tematiche trattate fossero più vicine al gusto mitteleuropeo del tempo (Musil, Kafka, lo stesso Walser), piuttosto che a quello italiano. Aspetto che, con le dovute proporzioni, fu lo stesso che portò Svevo a pubblicare il suo capolavoro, “La coscienza di Zeno” soltanto nel 1923 (e dopo l’intercessione di Joyce), a un quarto di secolo di distanza dal precedente romanzo. Morselli ricevette rifiuti da tutte le case editrici dell’epoca, rifiuti che collezionava in una cartellina color vinaccia sul cui frontespizio aveva disegnato un fiasco, a simboleggiare i propri insuccessi editoriali. Un colpo di Browning 7.65 riportò l’attenzione sulla sua opera. Da possibile “scrittore (involontario) del no” ad “autore postumo” per eccellenza. Talmente assurdo da apparire quasi razionale.

– J. D. Salinger (1919 – 2010): la storia di Jerome David Salinger è la storia di un predestinato alla scrittura trasformatosi, in maniera incomprensibile ai più, in un agrafo senza pari. Almeno questo era ciò che si ipotizzava fino alla sua morte quando i suoi esecutori testamentari resero noto che Salinger (a differenza di Rimbaud) aveva continuato a scrivere nel corso degli anni, dettando un preciso calendario di pubblicazione postuma. Caso più unico che raro nella storia della letteratura. Militare in Europa durante la Seconda Guerra Mondiale, Salinger conosce Hemingway, il quale rimane immediatamente colpito dalla bravura del giovane aspirante scrittore. Ritornato in patria, a New York, Salinger si dedica prima alla scrittura di racconti, poi, nel 1951, pubblica quello che è considerato il suo capolavoro: “Il giovane Holden”. Il successo non gli arrise subito ma, con il passare degli anni, il romanzo divenne una specie di libro cult inter-generazionale (basti pensare che se ne vendono circa 250.000 copie all’anno, per un totale di circa 65 milioni di copie vendute). Salinger, non lieto dell’interesse cadutogli addosso, abbandonò la Grande Mela per Cornish, un piccolo paesino del New Hampshire. Era il 1953: tranne rare eccezioni, non si mosse più da lì. Pubblicò ancora alcuni racconti, fino al 1963, anno in cui cessò ogni tipo di relazione con qualsivoglia casa editrice, rivista letteraria, redazione giornalistica. Iniziò quindi una vita solitaria, infastidito dalle attenzioni crescenti che venivano rivolte al suo privato. Cercò di bloccare un paio di biografie non autorizzate su di lui e, negli ultimi anni di vita, dovette sopportare i racconti (non certo lusinghieri) della figlia in merito alle sue vicende private. Lo fece sempre tramite legali e avvocati, mai concedendo interviste o facendosi vedere in pubblico. Morì nella sua casa di Cornish il 27 gennaio del 2010. Dietro di sé lasciò gli inediti di cui sopra, una vita da “recluso” tanto misteriosa quanto leggendaria, un senso di fastidio non tanto per un mondo delle lettere che non lo aveva compreso quanto più per un “carrozzone sensazionalistico” incapace di rispettare la sua privacy. Dopotutto, quello che doveva dire in merito lo aveva già fatto dire al “suo” Holden Caulfield: «Non raccontate mai niente a nessuno. Se lo fate, finisce che sentite la mancanza di tutti». Meno racconti, meno mancanza.

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[il non certamente agrafo Bret Easton Ellis compendia in 140 caratteri tutto il suo dispiacere per la dipartita di Salinger]

Con Salinger si conclude questo elenco di scrittori che, secondo diverse modalità, hanno vissuto la lontananza dalla scrittura e/o dal mondo editoriale. Da un lato mi piacerebbe essere molto più cinico e caustico di quel che sono e ribadire come certi eventi nulla abbiano a che fare con la cultura in sé o con la promozione della stessa, servendo più che altro a gonfiare gli ego ipertrofici di certi autori e/o le casse di associazioni più o meno meritevoli. Dall’altro mi piacerebbe essere più incantato e vedere in questo genere di festival l’occasione per persone spesso distanti dal mondo dell’editoria, di avvicinarsi ai loro “miti”. Vivendoli a tu per tu e non attraverso la mediazione delle loro opere.

Tirando le somme, credo che nessuna di queste due posizioni sia quella corretta. E ciò è dovuto al fatto che la scrittura è, per sua stessa natura, produttrice di un materiale talmente magmatico e indecifrabile che, nell’atto stesso di essere creato, sfugge completamente alla volontà dell’autore. Incanalandosi in rivoli contorti, frutto di tante, troppe, variabili imponderate e imponderabili.

Come detto in precedenza, tra le “professioni” esercitate da Ludwig Wittgenstein vi era anche quella di mecenate. Tra i suoi beneficiari figura il poeta austriaco Rainer Maria Rilke il quale, in merito alla scrittura, si espresse in questi termini: «le opere d’arte sono sempre il frutto dell’essere stati in pericolo, dell’essersi spinti, in un’esperienza, fino al limite estremo oltre il quale nessuno può andare». E quale limite più estremo della negazione stessa? Quale limite più estremo dell’assenza di scrittura, o della rinuncia alla medesima?

Ecco, nei festival letterari il limite più estremo è quello di non trovare posto a sedere.

O di vedersi pestati i piedi.

O sporcato il vestito.

O di ascoltare Baricco.

Ci si potrebbe scrivere sopra un romanzo.

Da presentare, ovviamente, al prossimo festival letterario.

Oltreuomo

Sono l'Oltreuomo, imparerete ad amarmi.